BEATI QUELLI CHE HANNO FAME DI GIUSTIZIA – Recensione del libro a cura di Don Angelo Chillura
1. Questa beatitudine evangelica potrebbe essere un sottotitolo al libro che Giovanni Impastato ha scritto qualche mese fa: Mio fratello. Tutta una vita con Peppino, perché sintetizza la vita di questo giovane affamato e assetato di giustizia, che con rettitudine ed onestà ha cercato il bene comune, rifiutando la violenza, e ucciso dalla mafia il 9 maggio 1978, a Cinisi.
Il libro racconta, come un diario, la vita della famiglia Impastato, fin dagli anni dell’infanzia di Peppino e Giovanni, di 5 anni più piccolo. Si parla del padre Luigi, della madre Felicia Bartolotta, dello zio Matteo e della zia Fara, dello zio Cesare Manzella, mafioso.
«È la storia di chi ha vissuto la mafia e l’antimafia all’interno delle mura domestiche» (terza di copertina): nella stessa scena della famiglia Impastato si svolge contemporaneamente la trama della mafia e dell’antimafia.
Mafioso è il padre Luigi, il cognato Cesare Manzella, capo mafia di Cinisi, ucciso con autobomba davanti al cancello della sua tenuta agricola. Mafiose sono le persone con le quali hanno contatti (tra cui Luciano Liggio). Il padre si vanta di essere fraterno amico di Tano Badalamenti (p. 235).
E c’è l’antimafia, costituita principalmente da Peppino, che avrà l’appoggio del fratello Giovanni e della madre Felicia.
Pur vivendo in un contesto familiare e sociale mafioso, Peppino da sempre ha aborrito la mafia. Fin da bambino ha avuto come una “allergia”, una forte reazione per ciò che era illegale e illecito.
Giovanni riconosce, e lo ripete frequentemente, e ne parla quasi con venerazione, che suo fratello Peppino fin da piccolo aveva già una sua personalità, e si distingueva per la sua intelligenza (riconosciuta anche dai coetanei compagni di scuola e di gioco, dagli adulti, dai professori), perspicacia, rettitudine, capacità di osservare le situazioni e i comportamenti, cercando di capire i fatti al di là dell’apparenza, interpretando le parole dette e quelle non dette (“Perché quando si commentano certi fatti, non si danno alcune spiegazioni?”). Egli pone e si pone sempre domande per andare in profondità, al di là di quello che si vede e si dice, accogliendo i consigli dello zio Matteo: «a tenere gli occhi aperti, a non fermarti a quello che si vede e ti incanta» (p. 62).
2. Quali sono gli elementi caratteristici che Peppino coglie sulla mafia?
Lo zio Cesare, mafioso, presenta se stesso come una persona per bene, come un benefattore generoso che aiuta la povera gente, l’orfanotrofio, distribuisce alimenti, offre soldi alla parrocchia.
Invece, Peppino presenta la mafia come «il potere illegittimo di persone che non hanno alcun rispetto per il bene comune e che impongono se stesse attraverso il denaro, la violenza, il ricatto, gli accordi sotto banco» (p. 275), che impone il pizzo, commercia la droga, comanda sul territorio («ma comanda al posto di chi?», si chiederà Peppino, dato che ad esercitare il potere in una società democratica deve essere lo Stato. p. 134). Ed è netto il giudizio che Peppino dà sui mafiosi e sulla mafia: «i mafiosi sono criminali, non importa se gentili o meno» (p. 190). E in un articolo scriverà che la «mafia è montagna di merda» (p. 208).
Dopo l’uccisione dello zio Cesare, Peppino prenderà maggiore consapevolezza della negatività della mafia: «finalmente abbiamo capito tutto» (p. 175); «Non voglio vivere con questa gente» (p. 174); «Con l’inganno ci hanno fatto credere di essere uomini d’onore, di rispetto […] ora basta» (p. 171); «Se questa è la mafia, io per tutta la mia vita mi batterò contro» (p. 176).
3. Cosa ha determinato in Peppino la presa di coscienza della negatività della mafia? Qual è stata la molla che lo ha portato a prendere le distanze dal padre e dai parenti mafiosi?
Credo che alla base ci sia la sua coscienza morale genuina, sincera, corretta, con un senso innato di giustizia. Pur vivendo in un ambiente mafioso, pur venendo continuamente sollecitato ad inserirsi nel mondo mafioso, presentato come una realtà buona, benefica, forte è stata la sua reazione e deciso il suo rifiuto della mafia.
In questo processo di maturazione, oltre alla sua sensibilità e alla volontà di capire, di approfondire, risulteranno preziosi i colloqui con lo zio Matteo, (anche se lo zio Matteo non farà nei primi tempi un discorso esplicito sulla mafia), che lo aiuterà a capire quello che avviene in paese, in Sicilia e nell’Italia. Come anche la lettura dei libri di Sciascia (Il giorno della civetta), di Carlo Levi (le parole sono pietre), di Danilo Dolci, e dei giornali.
Ciò che Giovanni fa emergere nel fratello Peppino è la forte idealità, la volontà di «trasformare il cuore e la mente di tutti i cittadini di questo Paese e del mondo in amanti della verità e della giustizia» (p. 272), di costruire una società sana, libera, senza condizionamenti, senza schiavitù, che alimenta la speranza del cambiamento: «voglio un’altra vita, un’altra società, un’altra Sicilia» (p. 249).
Non si riscontra rassegnazione o assuefazione (“munni a statu e munnu è”), come recita un proverbio che rivela la totale sfiducia in ogni cambiamento.
La storia della famiglia Impastato ci fa capire ancora che se è vero che tante volte l’ambiente condiziona e forma la persona (chi nasce e cresce in un contesto mafioso ne assimila i “modelli”), è anche vero che quando c’è una coscienza sensibile, retta, onesta, la negatività della mafia viene avvertita e rifiutata.
La conclusione manifesta lo scopo della pubblicazione del volume: «la legalità, per noi, è un concetto molto più ricco di quanto a volte si pensi […]: non è il “semplice” rispetto delle leggi, ma la realizzazione della dignità umana anche là dove le leggi, eventualmente ingiuste, non fanno abbastanza, o fanno male. […]: io e Peppino insegniamo che occorre essere non semplicemente “buoni cittadini” e “cittadini onesti”, ma che occorre diventare “cittadini partecipi”, cioè cittadini che guardano alle leggi, ma anche oltre le leggi: cittadini che guardano al valore di cui le leggi sono al servizio. Ne deriva che quando le regole condivise e persino fissate nelle leggi ci sembrassero insufficienti o ingiuste, noi eserciteremo la disobbedienza civile, assolutamente pacifica, di chi espone nei confronti degli altri l’essenza della propria coscienza e li invita a riflettere, a crescere, a migliorare. […] Così ragionava, e agiva, e agisce, Peppino Impastato. Mio fratello». (p. 276).