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Omelia del Cardinale Francesco Montenegro in occasione della riapertura Cattedrale di Agrigento

Omelia del Cardinale Francesco Montenegro in occasione della riapertura Cattedrale di Agrigento:

Un saluto cordiale e carico di gioia assieme al grazie per la presenza va a tutti voi fedeli della Chiesa agrigentina, accompagnati dai vostri presbiteri e diaconi- finalmente ritorniamo nella nostra Cattedrale -, grazie ai confratelli Vescovi che ci fanno sentire la vicinanza, anzi la comunione, delle altre chiese, e alle autorità tutte, civili e militari, regionali, provinciali e cittadine che, con la loro presenza, arricchiscono questa assemblea.

«La gloria del Signore riempiva il tempio» (Ez 43, 5). Mi piace iniziare con le parole del profeta Ezechiele e porle come cornice a questa solenne celebrazione di ringraziamento e di lode al Signore per la riapertura della chiesa Cattedrale. Rientriamo finalmente nel nostro tempio, in questa nostra casa, prezioso per noi perché da qui sono passati nel corso dei secoli tanta preghiera, tanto magistero e tanta santità.

La nostra Cattedrale, purtroppo, resta ancora una mamma malata, ci auguriamo che, riaverla significa che almeno sia uscita in maniera definitiva dal coma. In questi anni siamo stati sostenuti dalla speranza, anche se, devo confessarlo, a tratti, sembrava sbiadirsi e addirittura spegnersi a motivo di atteggiamenti non sempre interpretabili, delle molte deludenti e insincere parole e delle tante vuote e finte promesse. I lavori non sono completati, c’è ancora tanto da fare. Si deve completare la messa in sicurezza dell’edificio, poi dovrebbe iniziare il rinsaldamento della collina e infine ci vorrà il restauro finale dell’ edificio. Quel che conta, però, è che, dopo tanti lunghi anni, siamo oggi qui, per pregare e ritrovarci come chiesa santa di Dio.

È stato un momento fortemente desiderato, non tanto perché c’era l’urgenza di riaprire una chiesa, ma perché volevamo questa chiesa, la nostra cattedrale.

La fede si sostiene ed è ricca di segni. Uno di questi è la Cattedrale che simboleggia l’unità, nel nostro caso, della Chiesa Agrigentina. Rientrarvi, pregare e celebrare l’Eucaristia, significa risentirci concretamente dentro la storia cristiana della nostra terra, storia santificata dalla fede dei credenti, dei santi e dal sangue dei martiri che ci hanno preceduto. È importante  questo tempio per riandare alle radici della nostra fede e della nostra storia. Qui siamo identificati per la nostra fede, qui si comprendono meglio e diventano nostre le parole di Pietro: ”Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”.

Questo tempio ricorda e ripropone la storia religiosa, ma anche quella civile del nostro territorio e del nostro popolo. Potreste dirmi: ma questo non vale per tutte le chiese? Sì, però le altre chiese della diocesi sono la continuità di questa chiesa; esse non ci sarebbero se non fossero in comunione con questa. E questa Chiesa Madre, a sua volta, è strettamente legata alla Cattedra di Pietro, di cui oggi la Chiesa fa memoria. Questa coincidenza è stato il motivo per cui abbiamo scelto questa giornata per riaprila.

Sentiamo perciò l’orgoglio e la gioia di ritrovarci nella nostra Cattedrale: sentiamoci fieri, riconoscenti e gioiosi di essere tutti noi protagonisti di una lunga storia di fede; orgogliosi e consapevoli della nostra identità, delle nostre radici e del fatto che dalla Provvidenza ci viene affidata la storia odierna perché continui nel tempo. Ci tocca consegnarla ai nostri ragazzi e ai nostri giovani – è una bella storia, ecclesiale e civile – perché camminino fiduciosi verso il futuro.

Guardiamola la nostra cattedrale, anche se ferita, e lasciamoci prendere dallo stesso stupore di Salomone: «Ma è proprio vero che Dio abita sulla terra?».

Mi piacerebbe che oggi tutta la città il territorio agrigentino si sentano in festa. Non si riapre solamente un’interessante e antica opera architettonica; questo tempio è molto di più di un museo o di un contenitore di belle opere. Il card. Montini ebbe a dire: «Il segreto della cattedrale è che essa non è semplicemente un interessante monumento d’architettura, un venerabile edificio storico, un ampio museo di belle arti, né è un solenne salone di conferenze, o un auditorium di musica sacra. Essa è per noi una casa viva, un luogo privilegiato di abitazione divina. È l’aula di Cristo Maestro, è il Tempio di Cristo Sacerdote, è il luogo di Cristo Pastore». Sì, qui Cristo continua a ripetere da secoli: «Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo». E noi gli abbiamo risposto con le parole del Salmo: «Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla».

Questo antico edificio, posto in mezzo alle nostre case, ne è il cuore o, poiché svetta in cima al colle, è come la vedetta che, mentre vigila e protegge chi abita questa terra, invita a guardare il cielo perché possiamo desiderare sempre ciò che vale ed è grande in modo da abitarla con stile umano e familiare. Le nostre radici sono in cielo. Non sono le case e i palazzi a rendere vivibile una città ma le persone e le relazioni che loro intessono. Qui, noi credenti viviamo momenti particolari di preghiera, di comunione e di amicizia che assicurano una vita sociale più solidale e più pacifica. I valori della vita cristiana, anche e soprattutto in tempi non facili come i correnti, restano attuali e decisivi; da credenti che viviamo in una città non possiamo non avvertire la responsabilità di aiutare la comunità civile a sentire sempre il bisogno dell’unità e della concordia. Giorgio La Pira proponeva di “rigenerare in Cristo la società civile; riparare, nella grazia, l’ordine umano collettivo; rifare le cattedrali e le chiese centro della città; ridare al culto collettivo della Chiesa il posto che gli spetta». È un’utopia che può diventare realtà se tutte le nostre comunità ecclesiali s’ impegnano non solo nella ricerca della Gerusalemme celeste ma anche nell’edificazione della città degli uomini “attorno all’antica fontana della grazia e della verità” (come diceva Giovanni XXIII), che è la Chiesa.

Da questa cattedra Cristo, l’unico vero maestro, continua a insegnare, a rivelarci il Padre, ad annunziare il Regno di Dio, a diffondere la legge rivoluzionaria della carità. Il pensiero grato va in questo momento a tutti i Vescovi che hanno rappresentato nella Chiesa agrigentina il «Principe dei pastori» – come lo chiama Pietro -, sempre presente tra noi, sempre identico a sé, ieri e oggi e nei secoli (cfr. Eb 13,8).

Questo maestoso tempio materiale ci rimanda all’altro tempio, più prezioso, quello spirituale, cementato della carità, fatto di “pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale” (1 Pt 2,5). – «Voi siete il tempio del Dio vivente» (2 Cor 6,6) – questo significa vivere in comunione di convinzioni e di intenti per superare ogni frammentazione e desiderare di camminare insieme. La comunione non è solo il frutto della buona volontà o delle strategie pastorali, ma è obbedienza dovuta al Signore. Ignazio di Antiochia definisce i cristiani: «pietre del tempio, preparate in anticipo per l’edificio di Dio Padre, sollevate in alto dalla macchina di Gesù Cristo, che è la croce, usando per corda lo Spirito Santo» (Ef 9,1). È Cristo la pietra angolare del tempio spirituale, se fondati e costruiti saldamente su di Lui si genera e alimenta la comunione tra noi cristiani. Non dimentichiamo le parole dell’apostolo: «voi, che un tempo eravate non-popolo, ora invece siete il popolo di Dio » (1 Pt 2,10).

La comunione ecclesiale è dono, è il frutto dell’amore di Dio che non ci fa perdere la speranza e la fiducia nonostante le diversità e le divisioni. La comunione, però, dipende anche da noi. Dice Paolo: «Se c’è qualche consolazione in Cristo, … se ci sono sentimenti di amore e di compassione … Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù» (Fil 2,1.5).

Che il Signore faccia di noi «un cuore solo e un’anima sola» (At 4,32). Ci doni di vivere una comunione più convinta e più operosa nella collaborazione e nella corresponsabilità. Non è facile, come non lo è costruire o restaurare una chiesa, c’è sempre dell’altro da fare. L’importante è provarci.

Senza dimenticare infine che il frutto della comunione è la missione. Continuiamo a costruire la nostra Chiesa, lasciamoci coinvolgere dal suo dinamismo missionario, obbedendo al mandato: «Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura» (Mc 16,15). Ogni pietra, in questo edificio, non importa se piccola o grande, se visibile o no, ha la sua importanza e un suo ruolo; nella Chiesa, fatta di pietre vive, tutti, ciascuno secondo la propria vocazione, siamo chiamati a essere annunciatori, testimoni, missionari.

Questo tempio, nonostante i lavori continuino, si presenta a noi con un volto rinnovato. L’importante è che questo restauro sia accompagnato da quello delle nostre anime e da una sincera e permanente conversione.

Approfitto per dire il mio grazie a quanti hanno partecipato in varia maniera alla riapertura, credendoci, finanziando, progettando, seguendo ed eseguendo manualmente i lavori. Non faccio l’elenco, scusatemi, perché sono certo che dimenticherei qualcuno.

Chiudo con le parole di Paolo VI: «A Cristo ogni Cattedrale appartiene. Questa Chiesa è sua. Per Lui qui è innalzata una cattedra, sulla quale il suo Apostolo, in sua vece, parlerà; per Lui un trono, sul quale chi tiene il suo posto, siederà; per Lui un altare, dal quale chi lo rivive farà salire al Padre il suo stesso sacrificio; per Lui qui è riunito il popolo col suo Vescovo, e a Lui innalza il suo inno di gloria e la sua gemente preghiera; e da Lui, questo tempio acquista la sua misteriosa maestà».

Affidiamo la Chiesa agrigentina a Maria Assunta e a S. Giacomo, ai quali questo tempio è dedicato, ai nostri santi Libertino, Gerlando e Calogero, e chiediamo la loro intercessione per essa, per tutta questa terra e per questa nostra città.

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