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SOLENNITÀ DI SAN GERLANDO. OMELIA DEL CARD. FRANCESCO MONTENEGRO

10:16 –  Si è svolta nella Chiesa San Domenico, di Agrigento, ieri,  25 febbraio 2015, il  Pontificale in occazione del patrono di Agrigento, San Gerlando. All’interno della celebrazione il Corpo della Polizia Municipale della Città di Agrigento, ha recitato la preghiera del Vigile.  La celebrazione è stata  presieduta dal Cardinale, Francesco Montenegro, dove nell’Omelia dice:

erlando, uomo combat­tente e conquistatore di terra (questi significa il suo nome) caritatevole, coraggioso, infaticabile e santo, affidiamo ancora oggi la nostra Chiesa e a Lui guardiamo come modello da imitare.

            È stato costruttore della Chiesa agrigentina e apostolo intraprendente in questa terra. Pensando a lui e tenendo conto che tutti dobbiamo avere il cuore del pastore, come ci ha detto il Vangelo, e tenendo anche conto del cammino che abbiamo intrapreso in questi anni, mi piace stasera soffermarmi sulla Chiesa che è comunione e missione. Perché la Chiesa di Agrigento lo sia, è necessario smantellare l’equivoco dello stare insieme per farla diventare luogo di vera comunione, così come vuole il suo fondatore. Comunione non significa semplicemente tenere buoni rapporti personali o lavorare insieme o bisbigliare la poesia del ‘volersi bene’. La comunione è molto di più, è la comune partecipazione a Gesù Cristo, al suo Spirito, al suo Vangelo, e questo per la costruzione del Regno di Dio.

            La comunità è il risultato di una scelta di fede: consegnarsi cioè senza calcoli alla sorpresa divina per lasciare il segno del suo pas­saggio. La comunità c’è per essere nel mondo lievito di rinnovamento e rendere visibile l’amore di Dio. Una comunità che si chiude, che resta anonima e insignificante per la storia rende Cristo muto e blocca la risurrezione. I credenti insieme devono essere protagonisti e forze vive nel movi­mento in avanti del territorio in cui si vive e perciò dell’umanità, così da essere punto di riferimento per quanti lottano seriamente per la li­berazione dell’uomo.

            Questo per dire che non si fa comunità solamente per riempire il tempo libero o per stare bene insieme tra brava gente, essa non è una semplice possibilità di socializzazione, ma il luogo dove l’amicizia deve diventare fraternità, la collaborazione lavoro comune per portare la liberazione che Dio vuole per gli uomini, i programmi fedeltà a Dio che opera nella storia, i rapporti interpersonali amore disinteressato verso tutti i fratelli. Per questo motivo sono incomprensibili gli arroccamenti delle e nelle parrocchie, la mancanza di dialogo tra i gruppi di una stessa parrocchia e la scarsità di collaborazione tra le comunità di uno stesso territorio, quasi che ognuno sia detentore del Signore e Lui non fosse uno solo e uno per tutti. Mentre cantiamo sino a sfiatarci: “Dov’è carità e amore, là c’è Dio”, la frammentazione rende attuale la denuncia di Paolo: “«Io sono di Paolo», «Io invece sono di Apollo», «E io di Cefa», «E io di Cristo!»…”.

             Con Lui dobbiamo chiederci: “Ma Cristo è stato forse diviso?” (cfr 1 Cor. 1,12-13). La Chiesa non è la somma delle tante parrocchie, né la parrocchia è la somma di gruppi, né la propria comunità è una roccaforte da difendere.

Cristo ci chiede di essere un’unica Chiesa che sta con le porte aperte per guardare meglio la strada ed andarvi. Una cosa è certa: la comunione, quando è vera non cancella le identità. Si è comunità quando insieme si va con Cristo e verso Cristo e con Lui verso gli altri. Sbaglia chi cerca nella comunità quell’ atmosfera di favola che facendo dire: “e vissero felici e contenti”, esclude dagli altri o li esclude. Il non dialogo è esclusione. Non mi stancherò di ripetere che una parrocchia ben organizzata, ma chiusa in se stessa e non aperta sia al dialogo con la chiesa diocesana sia alla missione, non è ancora la Chiesa di Cristo. È come una pentola in cui continuano a bollire i legumi sino a quando lentamente si disfano, solo perché non si vuole versarli nei piatti a cui gli altri possono attingere. Così facendo si costruisce una comunità solo per noi e non per il Regno e la si usa per i propri interessi e non per incontrare Dio e i fratelli. Ciò vuol dire mettersi fuori strada.

            Gesù ci chiede di essere comunità aperte e tutti, agli altri e non solo tra i componenti di essa (se fosse chiusa non può definirsi comunità): « Se uno vuole litigare per toglierti la tunica, cedigli anche il mantello … Da’ a chi ti chiede e non voltare le spalle a colui che desidera da te un prestito … Amate i vostri nemici, perché se amate quel­li che vi amano, quale premio meritate?» (Mt. 5, 38 ss).

Impariamo da Gesù che incontra gli uomini nono­stante tutto: li avvicina nonostante il peccato (adultera, Giuda…), nonostante il denaro (Zac­cheo), nonostante la ver­gogna o la paura (Nicodemo e gli apostoli), nono­stante la disperazione (mamma del figlio morto), nonostante sia ‘straniero’ (centurione) … Egli, nonostante tutto, crede che l’uomo può alzarsi da terra, abbandonare finalmente il mantello che, imprigionandolo, circoscrive lo stretto spazio della sua libertà (cieco nato) … Gesù non giudica, né ricompensa per quello che sappiamo fare, ma si lascia guidare dal suo amore (operai dell’ultima ora); vede il bene dentro il cuore di ogni uomo (ladrone). Ci insegna così quali atteggiamenti avere se vogliamo costruire le comunità che Lui vuole. Chiediamoci intanto: non è per questo che per formare comunità bisogna essere poveri e semplici? Tante povertà messe insieme, Cristo le fa diventare ricchezza.

            La comunione non è qualcosa di automati­co, ma è ricerca, lotta vittoriosa sul proprio egoi­smo. Essa non si costruisce solo perché si rispettano le regole del galateo e della convenienza, ma si realizza quando c’è amore e fraternità.

La comunione poi è essenziale per rendere una comunità credibile ed efficace sul piano missionario. La missione infatti non è opera di navigatori solitari. Una sinfonia è composta da tante note che si rapportano tra loro. Ogni nota rimane se stessa, però c’è per permettere alle altre di essere se stesse e poi … una nota da sola (singoli o comunità) non fa armonia.

Il Papa ci dice che la Chiesa si fa bella se diventa la famiglia in cui tutti possono entrare e stare.

Le novità come le fatiche non devono scoraggiare, né si può vivere sempre con la nostalgia di ciò che è stato, si richiede, soprattutto oggi, impegno, fantasia, intelli­genza e pazienza per cercare e fare insieme le scelte per il futuro. I tempi che viviamo ci dicono che non possiamo accontentarci di restaurare o ritinteggiare l’ antico, ma di percorrere nuovi sentieri e trovare nuovi impianti pastorali. Papa Francesco ha detto che «il rimanere fedeli implica un’uscita. Proprio se si rimane nel Signore si esce da se stessi. Paradossalmente proprio perché  si è fedeli si cambia. La fedeltà è sempre un cambiamen­to, un fiorire, una crescita».

            Non si può cercare la comunità per trovare un rifugio sicuro, si rischia che diventi solo un ripostiglio, luogo dove viene accantona anche roba inutile, perché essa è il luogo concreto in cui Dio si rivela, spezza la sua forza di risurrezione per ciascuno di noi e dove l’uomo si libera. È questo gesto divino che ci fa riconoscere fratelli e ci fa sentire il bisogno di camminare con gli altri. La stabilità della comunità è perciò divina. Ecco perché dicevo che è una scelta di fede: in essa Cristo fa catena con noi, e ci comunica la sua novità. “Voi siete il campo, l’edificio … nessuno può portare un altro fondamento oltre quello che vi sta già; e questo è Gesù Cristo” (1 Cor 3,9-11).

Concludo ringraziando il Signore per quanto Egli sta operando nella nostra Chiesa attraverso voi e chiedendoGli, per intercessione di S. Gerlando, di non farci mai mancare il desiderio e l’ impegno di essere e mostrarci come la sposa bella che attende nella speranza il suo sposo Gesù.

 Maria, madre della Chiesa, ci aiuti in questo cammino.”

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